Processo Diaz

Il complesso Pascoli-Diaz-Pertini (sui nomi delle scuole c’è sempre stata gran confusione, ma per comodità̀ viene indicato come Pertini il dormitorio e come Pascoli il media center) è costituito da due edifici che nel luglio 2001 vengono assegnati al Genoa Social Forum per realizzare il media center e un centro di comunicazione e di training dove vari gruppi potessero fare i propri allenamenti per i presidi e per le azioni.

I quattro piani della scuola Pascoli contengono: nel seminterrato, una sala stampa e una palestra/infermeria; al primo piano una stanza per l’attività̀ legale, una per l’attività̀ dei sanitari e gli uffici di comunicazione del GSF; i media alternativi al secondo piano; al terzo piano Indymedia, e alcune strutture di segreteria come fotocopiatrici e via dicendo al quarto piano, da cui si accede al terrazzo.

Nella Pertini la palestra è adibita a zona di training, con un piccolo corridoio e uno stanzino sulla destra dell’ingresso come luogo di accesso pubblico a internet. Rapidamente la scuola diventa anche un dormitorio per manifestanti che non hanno trovato altro luogo dove dormire.

Durante tutta la settimana decine di mediattivisti mandano avanti la struttura, consentendo a vari operatori media di raccontare quello che sta avvenendo a Genova.

La sera di sabato 21 luglio, mentre molti manifestanti che dormivano alla Pertini stanno decidendo di tornare a casa, compaiono alcuni plotoni della Polizia in piazza Merani, la piazzetta a monte di via Cesare Battisti dove si trovano le due scuole. Da lì̀ si muovono a passo di marcia e invadono sia la Pertini che la Pascoli. Sulla loro strada trovano, tra le due scuole, un mediattivista che viene pestato a sangue e lasciato in fin di vita.

Nella Pascoli la furia dei poliziotti si sfoga quasi subito contro i computer di legali, medici e mediattivisti, oltre che, limitatamente, contro le persone, che vengono fatte sedere contro il muro e con la faccia al suolo mentre i locali vengono “perquisiti”.

Nella Pertini è invece una carneficina. Vengono arrestati tutti i novantatré presenti (alcuni sono riusciti miracolosamente a scappare). Il bilancio è di settantaquattro feriti, di cui due in condizioni gravissime e uno in fin di vita. In settantacinque, compresi tutti i feriti meno gravi, verranno portati alla caserma di Bolzaneto.

Domenica mattina, in una conferenza stampa in Questura i novantatré arrestati vengono accusati di essere parte di una organizzazione internazionale finalizzata alla devastazione e al saccheggio. I primi agenti entrati sarebbero stati aggrediti e all’interno della scuola si sarebbero ritrovate pericolose armi. Presto molte di queste affermazioni si dimostreranno false, e cadranno tutte le accuse nei confronti degli arrestati, ma solo due anni dopo si riveleranno falsi anche il ritrovamento di due bottiglie incendiarie e il tentato accoltellamento di un poliziotto. L’irruzione alla scuola Diaz venne decisa dai massimi vertici della Polizia presenti a Genova per il G8, in una riunione tenuta la sera del 21 luglio 2001, dopo due giorni di scontri con un morto, centinaia di feriti e pochi arresti, nella stanza del Questore Colucci.
A presiederla c’era il Prefetto Arnaldo La Barbera, Capo della Polizia di prevenzione arrivato quel pomeriggio da Roma. Presenti Gratteri (capo dello SCO, il Servizio Centrale Operativo), Calderozzi (suo vice), Murgolo (Vicequestore di Bologna), Mortola (Capo Digos Genova) e dalle 22,30 in poi anche Canterini (Capo Reparto Mobile Roma). Tutti funzionari che si ritroveranno nella scuola: il via libera lo diede Gianni De Gennaro, per telefono.
Più che una perquisizione, che infatti non si fece, fu decisa una retata: volevano fare il massimo numero di arresti a fronte di un bilancio disastroso per l’ordine pubblico. È noto che il vicecapo della Polizia, Prefetto Ansoino Andreassi, manifestò le sue perplessità̀ e non partecipò alla riunione operativa. Del resto, inviando a Genova La Barbera, De Gennaro l’aveva praticamente sfiduciato.
L’operazione, ufficialmente giustificata con la sassaiola (mai avvenuta) che avrebbe colpito le auto di un pattuglione di Polizia, si concluse con l’arresto di novantatré manifestanti trovati nella scuola, che per lo più̀ dormivano. Secondo il decreto di archiviazione delle accuse a loro carico, a parte chiudere cancello e portone (sfondati) non opposero una significativa resistenza. Tutti e novantatré furono arrestati per associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e al saccheggio, in base ai verbali di perquisizione e sequestro che attestavano il ritrovamento di armi improprie e di due molotov; ma i giudici genovesi non convalidarono gli arresti.

Le udienze preliminari del processo alle Forze dell’Ordine, iniziate il 26 giugno 2004 e finite il 13 dicembre, hanno visto tra i ventotto imputati uomini vicinissimi al Capo della Polizia, come Francesco Gratteri, promosso alla testa dell’antiterrorismo giusto in tempo per essere presentato come il castigatore delle nuove BR. Dirigenti di primo piano come il capo degli analisti della Polizia di prevenzione, Gianni Luperi (coordinatore della task force europea che indaga sugli anarchici). Investigatori come Gilberto Calderozzi (ex vice di Gratteri allo SCO), Filippo Ferri (dalla Squadra Mobile di La Spezia alle indagini sull’omicidio Biagi) e Fabio Ciccimarra (imputato anche a Napoli per le violenze sugli arrestati nella Caserma Raniero).

Si tratta di funzionari che hanno decine di agenti alle loro dipendenze e che, a eccezione di Luperi, provengono tutti dal mondo delle squadre mobili e della lotta alla criminalità̀ comune e organizzata, a cominciare da Gratteri e dallo stesso De Gennaro. Devono rispondere di falso e calunnia, essenzialmente per la vicenda delle due molotov fasulle, insieme agli altri firmatari dei verbali della Diaz, da Mortola al Vicequestore Massimiliano Di Bernardini (nucleo antirapine, Squadra Mobile di Roma), al Vicequestore Pietro Troiani e all’ex agente Alberto Burgio, che maneggiarono quelle due bottiglie prima che finissero nelle mani dei dirigenti, ripresi nel cortile da una provvidenziale telecamera.

Per il pestaggio all’interno della Diaz sono imputati di lesioni personali in concorso Vincenzo Canterini, Michelangelo Fournier (suo vice al Reparto Mobile di Roma) e gli otto capisquadra (Fabrizio Basili, Ciro Tucci, Carlo Lucaroni, Emiliano Zaccaria, Angelo Cenni, Fabrizio Ledoti, Pietro Stranieri e Vincenzo Compagnone). Le immagini, le dichiarazioni di Gratteri davanti alla commissione parlamentare e le stesse relazioni di servizio dei capisquadra, incrociate con le deposizioni dei pestati (che in qualche caso hanno potuto riconoscere le divise), indicano che i settanta celerini romani (tutti dello speciale nucleo antisommossa creato prima del G8), sono entrati per primi. Ma diventa anche chiaro che al pestaggio hanno preso parte decine di poliziotti in divisa e in borghese, mai identificati. Per questo la procura ha chiesto l’archiviazione delle accuse contro gli agenti semplici di Canterini.

Uno di loro, Massimo Nucera, è accusato però di falso e calunnia per aver denunciato di aver ricevuto una coltellata da un occupante della scuola mai identificato e per avere simulato il taglio sul suo giubbotto.
Un ultimo gruppo di funzionari e agenti è chiamato a rispondere di perquisizione arbitraria, danneggiamento, furto e lesioni personali per aver fatto irruzione nella scuola davanti alla Diaz, la Pascoli, che ospitava il media center del Genoa Social Forum. Computer distrutti, hard disk portati via, materiale sequestrato.

Gli imputati sono Salvatore Gava, Capo della Mobile di Nuoro, il napoletano Alfredo Fabbrocini e il mobiliere romano Luigi Fazio, quest’ultimo accusato anche di percosse a un giovane tedesco.
Durante l’audizione davanti alla Commissione Parlamentare d’Indagine sul G8, Gratteri si era assunto la responsabilità̀ di quanto avvenuto alla Pascoli, perché́ era stato lui a dare ordine di perquisire anche lì.

L’inchiesta sulla perquisizione alla Diaz è cominciata quando i giudici genovesi, dopo aver ascoltato gli arrestati, si sono rifiutati di convalidare gli arresti e di trasmettere gli atti alla Procura della Repubblica.
Nel frattempo De Gennaro è stato costretto a nominare tre super-ispettori per altrettante rapidissime indagini amministrative interne: una sugli incidenti di piazza, una sulle sevizie nella caserma di Bolzaneto e una appunto sulla Diaz, affidata al Questore (oggi Prefetto) Giuseppe Micalizio. In pochi giorni Micalizio ha concluso che l’operazione era stata organizzata male e che le violenze ingiustificate c’erano state. Sulla scorta delle sue conclusioni scattano tre provvedimenti di peso. Vengono rimossi dai loro incarichi il vicecapo vicario della Polizia Ansoino Andreassi, il numero uno dell’antiterrorismo Arnaldo La Barbera e il Questore Francesco Colucci (praticamente tutti quelli che quella notte si erano dichiarati contrari all’ irruzione nella scuola), mentre per Canterini si propone la destituzione (licenziamento) dalla Polizia di Stato.

Sulle prime, tra fine luglio/fine agosto 2001, nessuno viene iscritto nel registro degli indagati. Al massimo i poliziotti possono essere ascoltati come testimoni. Comincia subito un braccio di ferro tra il Procuratore Capo Francesco Meloni, spalleggiato dall’aggiunto Francesco Lalla (che prenderà̀ il suo posto nel 2003) e i sostituti che si occupano direttamente del caso, Enrico Zucca e Francesco Pinto, ai quali si aggiungono Francesco Cardona Albini, Monica Parentini, Stefania Petruziello e Vittorio Ranieri Miniati.

La Polizia pratica l’ostruzionismo: ancora oggi non esiste una lista completa dei 270 poliziotti che presero parte al blitz. E ci vogliono mesi per identificare i quattordici firmatari dei verbali: anzi tredici, perché́ la quattordicesima firma rimarrà per sempre non attribuita. Qualche mese dopo, però, Canterini e tutto il reparto vengono messi sotto inchiesta per concorso in lesioni personali.

Una vera svolta arriva nel novembre 2001.
I PM rilevano che Pasquale Guaglione, Vicequestore a Gravina di Puglia (Bari) e in servizio a Genova per il G8, aveva riferito di aver consegnato a reparti della Polizia due bottiglie molotov rinvenute in Corso Italia durante i disordini nel tardo pomeriggio del 21 luglio.
Guaglione l’aveva scritto nella relazione di servizio, mancava però il verbale di sequestro delle due molotov, considerate armi da guerra. E l’assenza di questo verbale ha insospettito i PM Pinto e Zucca, che hanno deciso di fare interrogare Guaglione per rogatoria dalla procura di Bari, utilizzando un piccolo trucco investigativo. Al funzionario sono state mostrate le bottiglie incendiarie sequestrate alla Diaz, senza dirgli che erano quelle della scuola, e chiedendogli invece se erano quelle che aveva trovato in corso Italia. Guaglione le ha riconosciute subito come quelle scoperte dalla sua pattuglia, perché́ ricordava le etichette di noti vini. Altro particolare, Guaglione ha riferito ai PM di non averle consegnate a un celerino qualsiasi, ma al dirigente Valerio Donnini, che era a Genova come responsabile di tutti i reparti celere ed è il padre del nucleo antisommossa entrato alla Diaz: il Questore, durante la riunione con La Barbera, chiama proprio Donnini per mobilitare quel nucleo per entrare nella scuola. E proprio sulla jeep Magnum di Donnini, guidata dall’ex agente Antonio Burgio, con a bordo il Vicequestore Pietro Troiani, le due bottiglie incendiarie sono finite alla Diaz. I PM l’hanno saputo dall’autista, che era lo stesso di Corso Italia, un giovanotto che si dice pentito di quello che gli hanno fatto fare e per questo si è dimesso dalla Polizia.

Nel maggio del 2002 i PM ricevono la perizia del RIS (Reparto Investigazioni Scientifiche) dei Carabinieri, relativa al giubbotto e al corpetto antiproiettile del Nucera, il quale aveva dichiarato di aver ricevuto una coltellata da un manifestante durante l’irruzione alla Diaz. Nella relazione del Colonnello Garofano, si legge che le prove sperimentali di taglio effettuate hanno sempre dimostrato, al contrario di quanto osservato sui reperti, un pressoché perfetto allineamento tra le lacerazioni presenti sul giubbotto e quelle sottostanti prodotte sul paraspalle. Al contrario, scrivono i Carabinieri, i tagli presenti sul giubbotto non risultano allineati a quelli sottostanti presenti sul paraspalle. Esiste pertanto un’evidente incompatibilità̀ tra i tagli presenti sugli indumenti in reperto e quelli ottenuti sperimentalmente secondo la dinamica evinta dalle affermazioni del Nucera.

L’agente Nucera a quel punto non potrà̀ far altro che cambiare versione: il 7 ottobre 2002, a quindici mesi dai fatti, affermerà̀ che la coltellata non era stata una sola, (come aveva affermato in modo nettissimo per ben due volte, prima nell’annotazione di servizio e poi davanti ai PM che lo ascoltavano come persona offesa) ma in realtà̀ erano state due. Successivamente, con la procedura dell’incidente probatorio, interverrà̀ una seconda perizia, affidata dal giudice al dottor Carlo Torre, già̀ responsabile di aver inquinato l’indagine sull’omicidio di Carlo Giuliani suggerendo la tesi del calcinaccio assassino che avrebbe deviato il proiettile del Carabiniere Mario Placanica. A giudizio di Torre il secondo racconto di Nucera è compatibile con i tagli riportati su giubbotto e paraspalle. Per i periti delle persone offese gli indumenti riportano lacerazioni che fanno pensare ad almeno quattro distinti colpi.

Ma il centro dell’indagine è ormai la vicenda delle due bottiglie incendiarie. Nel giugno del 2002 i PM hanno individuato un filmato dell’emittente genovese Primocanale, che mostra un gruppo dei funzionari più̀ alti in grado con il sacchetto azzurro contenente le due bottiglie molotov, nel cortile della scuola Diaz.

Così si spiega in quali mani siano finite le due bottiglie, portate fin lì̀ da Burgio su ordine di Troiani. Attorno al sacchetto azzurro il video mostra Luperi, Caldarozzi, Murgolo, Gratteri, Canterini. Passa di lì̀ anche La Barbera. Nessuno di loro, fino a quel momento, aveva ammesso di aver visto le molotov nel cortile. Al massimo le avrebbero viste in un momento successivo, comunque senza sacchetto.

Il 31 luglio 2002 i PM si fanno ripetere per bene queste dichiarazioni, poi spengono la luce e mostrano il filmino agli autorevoli indagati. Luperi, dopo aver visto quella scenetta, perde la parola: da quel momento si rifiuta di rispondere. Gratteri risponde ancora e se la prende con il reparto di Canterini, secondo la linea di difesa concordata con De Gennaro. Ma esce dal palazzo di giustizia nero di rabbia. Sa che non potrà̀ evitare la richiesta di rinvio a giudizio.

L’unico che si “salva” è Murgolo, l’ex Vicequestore di Bologna che oggi è dirigente del Sismi, il servizio segreto militare. I PM chiedono l’archiviazione perché́ Murgolo era lì̀ solo per rappresentare il Prefetto Andreassi, rimanendo al di fuori delle due catene di comando individuate dall’indagine: quella degli uomini delle squadre mobili, facente capo ai dirigenti dello SCO Gratteri e Calderozzi, e quella degli uomini delle Digos facente capo ai dirigenti della Polizia di prevenzione, La Barbera e Luperi. Tutti costoro, in ogni caso, evitano le accuse relative al pestaggio perché́ sono riusciti a dimostrare ai PM di essere arrivati dopo l’irruzione.

Gli interrogatori hanno chiarito che le molotov sono arrivate nel cortile perché́ ce le ha portate Burgio, su ordine di Troiani, che ancora oggi non si sa bene cosa facesse lì.
Secondo Troiani, assistito dall’avvocato Alfredo Biondi (senatore di Forza Italia ed ex Ministro della Giustizia), le due bottiglie sono finite in mano a Massimiliano Di Bernardini, suo pari grado, Vicequestore aggiunto a capo del nucleo antirapine della Squadra Mobile di Roma.

Di Bernardini ha invece negato di averle prese, ha ammesso solo di averle viste nel cortile in mano ad altri.
È comunque accertato che le bottiglie sono arrivate a Calderozzi, vice di Gratteri allo SCO e dunque superiore diretto di Di Bernardini (alla Diaz gli uomini delle squadre mobili dipendevano da Gratteri e da Caldarozzi). E Caldarozzi effettivamente compare nel filmato del cortile.

Tutti gli indagati si difendono sostenendo di non aver preso parte a nessun disegno calunnioso. Fanno però una gran fatica a sostenere che nessuno di loro, pur essendo tutti investigatori esperti, si è informato sulla precisa provenienza di quelle «armi da guerra». Dove erano state trovate? Da chi? Nei verbali, scritti da Ciccimarra e Ferri e firmati anche da Caldarozzi, si legge che le bottiglie sono state rinvenute all’interno della scuola, nella palestra al piano terra, in modo che fossero tra gli oggetti attribuibili ai novantatré occupanti arrestati.

Questa informazione, al termine dell’indagine, è risultata falsa e calunniosa. Non è l’unica, peraltro: nei verbali le stecche degli zaini sono indicati come spranghe, “armi improprie”, e un ricco catalogo di altri oggetti atti a offendere è ricavato dagli attrezzi di un cantiere adiacente, che era rimasto chiuso finché non è arrivata la Polizia.

Il 13 dicembre 2004 il giudice dell’udienza preliminare Daniela Farraggi ha rinviato a giudizio tutti i 28 imputati per tutti i capi di imputazione: una vittoria politica molto importante anche per l’aria di salvataggio in extremis che si respirava per i dirigenti di grado più̀ alto presenti.

Il 6 aprile 2005 si apre il processo di primo grado.
Il processo entra nel vivo nell’autunno 2005 e prosegue con un buon ritmo, circa quaranta udienze, due sedute a settimana. Sono testimoni del PM, come parti offese, novantatré ragazzi: tutti coloro che si trovavano nella Pertini e che furono picchiati e poi portati nella caserma di Bolzaneto. Il collegio degli avvocati Genoa Legal Forum è di quaranta persone, i novantatré ragazzi sono stati quasi tutti ascoltati.

Le udienze sono talvolta drammatiche: gli stranieri (tedeschi, spagnoli, inglesi) sono quelli che hanno sofferto maggiormente, trovandosi in una situazione, dalla Diaz a Bolzaneto, per loro completamente incomprensibile. Dopo i fatti di Bolzaneto molti di loro furono rispediti in patria senza documenti o effetti personali, con un procedimento amministrativo di espulsione del tutto illegittimo per cittadini UE (sul quale infatti tutti i ricorsi sono stati vinti). Nessuno degli agenti imputati si è mai presentato in aula. Vengono invece ascoltati dirigenti di PS e alcuni funzionari imputati alla fine del dibattimento.

Il processo è stato reso maggiormente complesso e difficoltoso da un atteggiamento quasi omertoso e inquinante da parte dei funzionari imputati e in generale dell’amministrazione dell’interno.

La vicenda che ha riguardato il falso ritrovamento presso la scuola delle due molotov è stato certamente il punto più alto di una strategia del “muro di gomma” che ha caratterizzato l’intero processo. Nel gennaio 2007 sono stati sentiti come testimoni Claudio Sanfilippo, dirigente della squadra mobile di Genova e Luca Salvemini, Vicequestore a Palermo, che erano stati incaricati nel giugno 2002 di svolgere alcune indagini sui fatti accaduti nelle scuole Diaz e Pascoli. Durante la testimonianza hanno riferito, tra le altre cose, della difficoltà di effettuare i riconoscimenti (come per esempio alcuni ritardi nel ricevere le foto degli agenti della Polizia presenti per i confronti, o l’impossibilità di identificare un agente con una coda di cavallo, nonostante comparisse in diverse riprese e avesse appunto un aspetto caratteristico) e della mancata identificazione, nonostante sei anni di indagini, di una delle quindici firme dei verbali di arresto dei 93.

Il 17 gennaio 2007, nel corso di un’udienza del processo relativo all’irruzione delle forze dell’ordine nella scuola Diaz, gli avvocati difensori degli agenti e dei funzionari di Polizia imputati hanno reso noto che le due molotov usate come prova per giustificare l’irruzione erano state smarrite.

Successivamente, il Presidente del Collegio, Gabrio Barone, riferiva che le risultanze dell’indagine condotta dal Questore Salvatore Presenti, in una risposta scritta sollecitata dai Pubblici Ministeri Francesco Cardona-Albini ed Enrico Zucca, dava per certo che le molotov fossero da considerare – se non addirittura distrutte – comunque irrimediabilmente perdute.

Il presidente Barone stigmatizzava duramente il comportamento della Questura di Genova, evidenziando come sia impossibile smarrire o addirittura distruggere corpi di reato di importante valenza se non per dolo o per colpa, non escludendo provvedimenti contro i responsabili della loro custodia; a tale proposito il PM Zucca annunciava l’apertura di uno specifico procedimento giudiziario.

Il 5 aprile 2007 il Vicequestore Pasquale Guaglione, in videocollegamento per problemi di salute, confermava l’identificazione delle molotov, testimoniando di averle riconosciute fin dai primi servizi televisivi che mostravano i materiali sequestrati alla scuola Diaz. Il Vicequestore aggiungeva che dopo il ritrovamento aveva mostrato le due molotov (contenute in un sacchetto di plastica colorato e senza scritte) all’assistente che gli faceva da autista, al suo responsabile, per poi consegnarle al generale Donnini, che era sopraggiunto nel frattempo su un fuoristrada del reparto mobile di Roma. Aggiungeva inoltre che nella relazione di servizio preparata dal suo responsabile non erano stati scritti i particolari del ritrovamento (come alcune delle caratteristiche esterne particolari delle bottiglie che ne avrebbero permesso una facile individuazione) nonostante la sua esplicita richiesta.

Il 4 maggio 2007 è stato ascoltato nel processo Francesco Colucci, al tempo Questore di Genova. Colucci, stando a quanto riferito anche dai media, contraddicendosi più volte su diverse questioni (per es. su chi avesse fatto la comunicazione sul ritrovamento delle molotov o sulla perquisizione errata alla vicina scuola Pascoli), contraddicendo anche passate testimonianze, avrebbe riferito che a coordinare la perquisizione alla Diaz era stato Lorenzo Murgolo e che il prefetto La Barbera (morto nel frattempo) era d’accordo. Successivamente a questa deposizione, a causa delle numerose contraddizioni, Francesco Colucci è stato iscritto nel registro degli indagati per falsa testimonianza. Il 20 giugno 2007 i media danno infatti notizia dell’apertura di un’indagine nei confronti dell’ex Capo della Polizia Gianni De Gennaro per istigazione alla falsa testimonianza. Secondo l’accusa De Gennaro avrebbe fatto pressioni sul Questore Francesco Colucci perché desse una versione dei fatti concordata, in cui si potesse scaricare la responsabilità del blitz alla Diaz su Arnaldo La Barbera (ormai morto) e su Lorenzo Murgolo, la cui posizione era già stata archiviata in passato su richiesta dei PM. Interrogato il 14 luglio, De Gennaro (da poco sostituito nel suo ruolo di capo della Polizia da Antonio Manganelli, e divenuto capo di gabinetto del ministro dell’Interno Giuliano Amato) ha respinto tutte le accuse. Alla base della decisione di indagare oltre era infatti emersa un’intercettazione telefonica in cui Colucci, parlando con un alto funzionario della Polizia indagato dalla Procura di Genova per una vicenda non legata al G8, affermerebbe che «Il capo dice che sarebbe meglio raccontare una storia diversa..». Per questi fatti i Pubblici Ministeri il 29 marzo 2008 chiedevano il rinvio a giudizio di Gianni De Gennaro, di Francesco Colucci e di Spartaco Mortola. Colucci, condannato in primo e secondo grado, verrà prosciolto per intervenuta prescrizione dopo il rinvio con annullamento della sentenza di appello da parte della Cassazione. Mortola e De Gennaro, assolti in primo grado e condannati in appello, verranno definitivamente prosciolti in Cassazione.

Il 23 maggio veniva ascoltato Ansoino Andreassi, all’epoca dei fatti vice capo della Polizia: nella sua testimonianza affermava che sabato 21 luglio con l’arrivo di Arnaldo La Barbera, voluto dal capo della Polizia De Gennaro era stata cambiata la catena di comando, nonostante ufficialmente fosse un suo sottoposto: «Arnaldo La Barbera era la figura più carismatica. E lui quella sera era presente. A me dispiace parlare di un collega che non può più dire la sua. Ma è andata così. È pacifico». Secondo la testimonianza di Andreassi, a prendere la decisione dell’assalto alla Diaz furono quindi il prefetto Arnaldo La Barbera, il Questore di Genova Francesco Colucci, il capo dello SCO della Polizia Francesco Gratteri, e il dirigente della Digos Spartaco Mortola. La decisione venne presa in due riunioni, alla prima delle quali Andreassi partecipò esprimendo la sua contrarietà («tutti si stavano preparando ad andare a casa, la tensione stava scemando e dovevamo solo garantire il deflusso»), mentre alla seconda riunione, di carattere operativo, si rifiutò di partecipare. Inoltre Andreassi dichiarò che in quel momento era sentita dai vertici delle forze dell’ordine la necessità di effettuare il maggior numero di arresti possibile per poter recuperare l’immagine delle forze dell’ordine che non erano riuscite a fermare gli atti vandalici e gli scontri di quei giorni: «Si fa sempre così, in questi casi. È un modo per rifarsi dei danni ed alleggerire la posizione di chi non ha tenuto in pugno la situazione. La città è stata devastata? E allora si risponde con una montagna di arresti». Andreassi affermava anche di aver incaricato Lorenzo Murgolo (allora dirigente della Digos di Bologna e oggi funzionario del SISMI, la cui posizione è già stata archiviata) di recarsi alla scuola per riferire se lo svolgimento della perquisizione potesse procurare problemi di ordine pubblico nel resto della città (dove molti no-global si stavano apprestando ad andarsene) e di aver ricevuto da questo, ad arresti e perquisizione già compiuti, la notizia del ritrovamento delle molotov.

Il 7 giugno veniva ascoltato nel processo il Questore Vincenzo Canterini, all’epoca Comandante del I Reparto Mobile della Polizia di Stato con sede in Roma. Durante la deposizione, durata sei ore, Canterini ammetteva di non aver assistito alla “resistenza attiva da parte dei 93 No-Global” di cui al tempo aveva scritto nella sua relazione indirizzata al Questore Francesco Colucci (reazione che è sempre stata usata per giustificare l’uso della forza da parte degli agenti), ma di averla invece dedotta da quello che era stato detto da altri agenti presenti nel cortile della scuola.

Il 13 giugno uno dei 28 poliziotti imputati per l’irruzione alla Diaz, Michelangelo Fournier, all’epoca dei fatti Vicequestore aggiunto del primo Reparto Mobile di Roma agli ordini di Canterini, confessava in aula, rispondendo alle domande del PM Francesco Cardona Albini, di aver assistito a veri e propri pestaggi, sia da parte di agenti in uniforme (specificando però, anche in interviste successive, «con l’uniforme dei reparti celere e un cinturone bianco… non blu come il nostro») sia in borghese con la pettorina. Fournier sosteneva di non aver parlato prima perché non aveva avuto «il coraggio di rivelare un comportamento così grave da parte dei poliziotti per spirito di appartenenza» e, parlando delle violenze, le definiva “macelleria messicana” (nelle dichiarazioni rese precedentemente ai PM il Vicequestore aveva sostenuto di aver visto dei feriti a terra, ma di non aver assistito ad abusi o pestaggi).

Otre all’episodio delle molotov, di certo il più grave, e al falso accoltellamento dell’agente Nucera sono molte le situazioni in cui il Ministero dell’Interno e i singoli appartenenti alle FF.OO. mostrano la più totale solidarietà nei confronti degli imputati. Si va dalla “scorta” assegnata ad alcuni difensori dei medesimi alla documentazione lacunosa fornita agli avvocati e relativa agli arrestati parti civili, alla mancata collaborazione nell’identificazione dei firmatari del verbale di arresto dei 93 colmo di falsità e calunnie (a oggi non sappiamo chi fosse l’ultimo dei sottoscrittori), alle intimidazioni vere e proprie ad alcuni testimoni della Procura fermati per “casuali controlli” alla stazione durante il processo.

Il 13 novembre 2008 viene emessa la sentenza di primo grado. Vengono condannati Vincenzo Canterini (4 anni), e diversi suoi sottoposti (tra cui Michelangelo Fournier, che definì la situazione nella Diaz “macelleria messicana”, condannato a 2 anni). Condannati anche Michele Burgio (2 anni e 6 mesi) e Pietro Troiani (3 anni) per aver rispettivamente trasportato e introdotto all’interno dell’edificio le due molotov. Per quello che riguarda l’irruzione nella scuola Pascoli e gli eventi successivi, su due richieste di condanna vi è stata una sola sentenza di colpevolezza con condanna a un mese di carcere. Assolti i vertici delle forze dell’ordine presenti durante il fatto e i responsabili che firmarono i verbali dell’operazione poi rivelatisi contenenti delle affermazioni erronee (come la presenza delle molotov all’interno della scuola). Assolti anche due agenti indagati relativamente alla questione del dubbio accoltellamento da parte di un manifestante. L’accusa aveva chiesto 28 condanne, su 29 persone processate (era stata chiesta l’assoluzione di Alfredo Fabbrocini, inizialmente ritenuto responsabile dell’errata irruzione nella Pascoli, poi rivelatosi estraneo al fatto), per un totale di circa 109 anni di carcere. In totale sono stati erogati 35 anni e 7 mesi di carcere, più 800 000 euro di risarcimento (da parte di alcuni condannati e del Viminale) da dividere fra circa novanta persone. Non essendo avvenuta l’identificazione degli agenti che avevano ridotto in coma il giornalista inglese Mark Covell, è stato inizialmente risarcito di soli quattromila euro per essere stato “calunniato” da alcuni agenti.

Persino in una sentenza cauta come questa, si può leggere che: è stato accertato «un certo distacco rispetto all’indagine in corso», come «la Polizia, una volta venute alla luce le violenze compiute all’interno della Diaz, non abbia proceduto con la massima efficienza nelle indagini volte ad individuarne gli autori e ad accertare le singole responsabilità», e che «tale atteggiamento ha contribuito ad avvalorare la sensazione di una certa volontà di nascondere fatti e responsabilità di maggiore importanza che seppure infondata o comunque rimasta del tutto sfornita di prove ha caratterizzato negativamente sotto il profilo probatorio tutto il procedimento».

La sentenza viene impugnata da tutte le parti processuali.

Il 18 maggio 2010, la terza sezione della Corte d’Appello di Genova riforma quindi la sentenza di primo grado condannando tutti i vertici della catena di comando della Polizia che erano stati assolti nel precedente giudizio. In totale vengono condannati 25 imputati su 28, per una condanna complessiva a oltre 98 anni e 3 mesi di reclusione.

In particolare, l’ex comandante del primo reparto mobile di Roma Vincenzo Canterini è stato condannato a cinque anni, il capo dell’anticrimine Francesco Gratteri e l’ex vicedirettore dell’Ucigos Giovanni Luperi a quattro anni ciascuno, l’ex dirigente della Digos di Genova Spartaco Mortola e l’ex vicecapo dello Sco Gilberto Caldarozzi entrambi a tre anni e otto mesi. Un dirigente della Polizia, Pietro Troiani, accusato con Michele Burgio di aver materialmente introdotto le molotov nella scuola, è condannato a tre anni e nove mesi. L’autista Michele Burgio viene invece assolto con formula piena (per non aver commesso il fatto relativamente all’accusa di calunnia e perché il fatto non sussiste relativamente all’accusa di trasporto di armi). Condannati anche Massimo Nucera e Maurizio Panzieri, per i fatti relativi all’accoltellamento, ritenuto dalla corte di appello un falso; la stessa corte, nelle sue motivazioni, ha stigmatizzato anche i diversi cambi di versione dati nel tempo dai due indagati. Non sono stati dichiarati prescritti i falsi ideologici e alcuni episodi di lesioni gravi, mentre la prescrizione è scattata per i reati di lesioni lievi, calunnie e arresti illegali. Per i 13 poliziotti già condannati in primo grado, inoltre, le pene sono state inasprite. Il Procuratore Generale, Pio Macchiavello, aveva chiesto oltre 110 anni di reclusione per tutti i 27 imputati. Tra i condannati in primo grado, sono stati assolti per intervenuta prescrizione l’ex vice dirigente del reparto mobile di Roma Michelangelo Fournier e l’ex sovrintendente capo di Catanzaro Luigi Fazio.

Anche questa sentenza viene impugnata.

Nell’aprile 2011 il Procuratore Generale Luciano Di Noto chiedeva alla Corte d’Appello di accelerare le pratiche burocratiche per il passaggio del processo al vaglio della Cassazione. Il timore espresso dal Procuratore Di Noto è che intoppi e lungaggini burocratiche causino la prescrizione dei reati commessi. Tra le valutazioni che dovrà compiere la Corte di Cassazione è presente anche quella relativa alla possibile equiparazione dei reati compiuti a quelli di tortura o maltrattamento che, in base alle decisioni della Corte europea dei Diritti umani, non dovrebbero essere soggetti a prescrizione, condono o amnistia.

Il 5 luglio la Cassazione conferma in via definitiva le condanne per falso aggravato. Diventano definitive le condanne a 4 anni per Francesco Gratteri, che nel frattempo era diventato capo del dipartimento centrale anticrimine della Polizia; a 4 anni per Giovanni Luperi, vicedirettore Ucigos ai tempi del G8, in seguito capo del reparto analisi dell’Aisi. Tre anni e 8 mesi a Gilberto Caldarozzi, che nel corso del tempo dei processi era diventato capo servizio centrale operativo, ugualmente a 3 anni e 8 mesi per il capo della squadra mobile di Firenze Filippo Ferri e con l’interdizione dai pubblici uffici per 5 anni. Viene invece ridotta a 3 anni e 6 mesi la condanna a 5 anni per Vincenzo Canterini, ex dirigente del reparto mobile di Roma, essendosi prescritto il reato di lesioni gravi la cui presenza aveva portato alla condanna da 5 anni in appello. Sono prescritti, invece, i reati di lesioni gravi contestati a nove agenti appartenenti al settimo nucleo speciale della Mobile all’epoca dei fatti.

Il 2 ottobre 2012 sono state pubblicate le motivazioni della cassazione. Vi si legge, fra l’altro, che la condotta violenta della Polizia nell’irruzione alla scuola Diaz ha «gettato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero». Inoltre i supremi giudici evidenziano che gli imputati hanno dato vita a una «consapevole preordinazione di un falso quadro accusatorio ai danni degli arrestati, realizzato in un lungo arco di tempo intercorso tra la cessazione delle operazioni ed il deposito degli atti in Procura».

Alcuni dei condannati, al momento della sentenza, ricoprivano, nonostante le condanne in appello, ruoli di rilievo nell’ambito delle forze dell’ordine italiane, che successivamente hanno dovuto temporaneamente abbandonare per via della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici. Dopo la condanna in Cassazione e la sospensione, si sono comunque verificate situazioni impensabili, che danno la misura dell’atteggiamento del Ministero dell’Interno verso questa vicenda, come gli avanzamenti di carriera di Caldarozzi, il quale, dopo essere stato assunto come consulente alla Finmeccanica di cui era presidente l’amico Gianni De Gennaro, capo della Polizia ai tempi del G8, è stato nominato vice-capo della Direzione investigativa Antimafia nel 2017. Pasquale Troiani e Salvatore Gava dopo aver scontato la loro pena sono rientrati in servizio effettivo, passando prima alla Polizia stradale per diventare entrambi Vicequestore nel 2020.

L’atteggiamento di solidarietà di corpo mantenuto dal Viminale e dallo Stato nei confronti dei condannati è stato confermato anche dalle vicende successive alle pronunce penali e relative alle cause civili i risarcimenti. Non solo, infatti, nessuna proposta risarcitoria veniva fatta durante i processi penali (con la conseguenza di aggravare di molto il carico per l’erario) ma anche successivamente alla definitiva affermazione della responsabilità penale anche di alti funzionari le vittime hanno dovuto iniziare lunghe e costose cause per ottenere quanto dovuto. Nel 2013 sono state depositate le prime cause civili contro il Viminale.

Nel 2018 la procura della Corte dei Conti della Liguria ha chiesto un risarcimento di 8 milioni di euro ai 27 poliziotti responsabili dell’aggressione a persone che si apprestavano ad andare a dormire, ospiti della scuola Diaz, per danni d’immagine e patrimoniali. Oltre alla bassa forza, che ha eseguito i brutali pestaggi, sono stati chiamati a risarcire tutti i comandanti, da Francesco Gratteri, allora direttore del Servizio Centrale Operativo, e il suo vice Gilberto Caldarozzi; Vincenzo Canterini, comandante del primo reparto Mobile di Roma, il suo vice comandante e i capisquadra, Giovanni Luperi e Francesco Gratteri, Filippo Ferri, Fabio Ciccimarra, Nando Dominici (questi ultimi all’epoca dirigenti di diverse Squadre mobili), Spartaco Mortola, Carlo Di Sarro, Massimo Mazzoni, Renzo Cerchi, Davide Di Novi e Massimiliano Di Bernardini. I magistrati indicano anche il capo della Digos di Genova, Spartaco Mortola, come responsabile dell’uscita notturna. La procura, indica che devono risarcire un danno patrimoniale indiretto, ovvero i risarcimenti alle parti civili pagati dal ministro dell’Interno, oltre alle spese legali per i processi, il tutto per oltre 3 milioni di euro. Secondo il magistrato contabile, lo Stato, non solo ha dovuto affrontare esosi risarcimenti, ma ha anche subito un grande danno d’immagine, quantificato in 5 milioni di euro.

Ricorsi sono stati altresì presentati dalle parti civili alla Corte europea di Strasburgo, che ha condannato l’Italia a risarcire i ricorrenti affermando nel contempo la responsabilità dello Stato membro per il mancato riconoscimento del reato di tortura.

Tutta la vicenda consente alcune riflessioni. La “politica istituzionale” si è sostanzialmente disinteressata della questione, al di là di alcune obbligate dichiarazioni mediatiche e di una Commissione Parlamentare priva di conseguenze. Il fatto che gli imputati fossero sostanzialmente graditi ai diversi orientamenti politici ha comportato che nessun governo abbia mai determinato nell’ordine: il licenziamento dei funzionari coinvolti per palese sopravvenuta inaffidabilità e per aver tradito il rapporto fiduciario con l’amministrazione pubblica; le dimissioni del Capo della Polizia e del Ministro dell’Interno; il risarcimento delle vittime se non successivamente a pronunce giudiziarie che lo imponevano. Questo atteggiamento, che ha comportato anzi per un decennio la continuativa conferma fiduciaria di funzionari indagati prima e condannati poi a pene importanti, è forse la vera pagina nera per la Repubblica italiana dal punto vista politico. Le vittime sono state in parte risarcite dal punto di vista economico ed etico attraverso il riconoscimento giudiziario di quanto hanno subito. Nessuno invece ha inteso o preteso di sanare la profondissima ferita, a tutt’oggi sanguinante, fra controllati e controllori, fra cittadini, puniti senza colpa, e uomini in divisa, impuniti nonostante l’accertamento della responsabilità penale.

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[ultimo aggiornamento luglio 2021]