Processo Bolzaneto

La storia delle torture nella “caserma degli orrori” di Genova Bolzaneto, inizia nelle settimane che precedono i giorni di Genova, quando si organizza la gestione dell’ordine pubblico in vista del vertice e delle manifestazioni che, parallelamente, si stanno preparando.

L’ipotesi di gestione dei fermati e arrestati prevede un rapido trasferimento in carceri site in altre province. Le carceri genovesi sono infatti cronicamente sovraffollate e singolarmente interne al tessuto urbano: si individuano quindi quelle di Alessandria, Voghera, Pavia e Vercelli.

In questo modo risulta però necessario allestire due centri di transito ai margini della città e si selezionano quindi per la raccolta temporanea e lo smistamento degli arrestati e dei fermati la sede provinciale dell’Arma dei Carabinieri di Forte San Giuliano, nella zona di Albaro, e la caserma della Polizia di Stato Nino Bixio di Bolzaneto.

Nella prima dovevano confluire i prigionieri dei Carabinieri, nella seconda quelli di Guardia di Finanza e Polizia di Stato.

Il 5 luglio 2001, il Questore Colucci firma dunque il provvedimento con cui mette la caserma a disposizione della Polizia Penitenziaria. Le persone eventualmente fermate o arrestate dalla Polizia di Stato sarebbero quindi state tradotte a Bolzaneto affinché chi aveva operato potesse provvedere agli incombenti di cui agli artt. 386 e 387 del cpp (identificazione, redazione dei verbali di arresto e fermo, nomina e avviso del difensore). La Polizia Penitenziaria, dal canto suo, avrebbe compiuto tutte le operazioni abitualmente svolte dall’ufficio matricola all’atto dell’ingresso in carcere per poi trasferire con i propri mezzi gli arrestati nelle carceri di destinazione.

La previsione, sulla base dell’esperienza dei precedenti vertici internazionali, è di circa 300-350 arresti e fermi nel corso dei tre giorni e ciascuno dei fermati avrebbe sostato nella caserma per un periodo molto limitato, cui sarebbe seguita la traduzione.

In questo senso la Bixio si prestava perfettamente allo scopo.

L’edificio si trova infatti in una parte piuttosto defilata della Val Polcevera, ben lontana dalla zona rossa e dalle arterie più trafficate, ma al tempo stesso vicina allo svincolo autostradale, per raggiungere gli istituti detentivi di destinazione.

Pressappoco l’organizzazione, come riscostruita nel corso del processo, avrebbe dovuto essere questa: subito dopo l’arresto o il fermo, i manifestanti sarebbero stati condotti presso la caserma. Nino Bixio. Qui, dopo un primo triage da parte del personale medico, il fermato sarebbe stato messo prima a disposizione della Polizia di Stato per l’identificazione, il fotosegnalamento e la redazione dei verbali, poi, formalizzato l’arresto, sarebbe stato preso in consegna dalla Polizia Penitenziaria che lo avrebbe accompagnato in infermeria per la visita dei nuovi giunti e infine in “matricola”, per completare le procedure di immatricolazione.

Da lì sarebbe stato collocato in una delle due camere di sicurezza messe a disposizione della Polizia Penitenziaria per essere poi tradotto al carcere di destinazione.

In realtà la Mobile terrà a propria disposizione una delle due celle fino alla mattina del 22 luglio e la permanenza nella caserma durerà anche fino a 35 ore, molte delle quali trascorse dentro le celle in attesa di essere accompagnati nei vari uffici. Tutta l’organizzazione predisposta andrà completamente in tilt, creando una pericolosa commistione di operanti appartenenti a reparti e corpi differenti in un caos organizzativo che permetterà la libera espressione dei lati più oscuri e inquietanti di quella che non esiteremmo a definire la subcultura carceraria e poliziesca delle  Forze dell’Ordine italiane.

Infatti la disastrosa gestione dell’Ordine Pubblico nelle strade di Genova farà saltare il banco.

Da un lato, dopo l’uccisione di Carlo Giuliani da parte del Carabiniere Placanica, l’Arma viene sollevata da qualsiasi incarico di O.P. al di fuori della Zona Rossa e San Giuliano, a partire dal pomeriggio del 20 luglio, non riceve più fermati.

Dall’altra parte, gli arresti e i fermi si moltiplicano a dismisura. La stragrande maggioranza degli stessi sarà poi giudicata illegale, ma i manifestanti, spesso feriti e sotto shock, vengono comunque arrestati e condotti a Bolzaneto. Tra questi giungono, la notte del 21 luglio, i reduci della “macelleria messicana”, come sarà definita l’irruzione presso la scuola Diaz.

Quanti  manifestanti siano transitati per Bolzaneto non si saprà mai con certezza, ma certo è che in quella caserma furono rinchiuse almeno 250 persone e che gli uomini di Polizia di Stato (Squadra mobile e Digos), Polizia Penitenziaria (personale addetto agli uffici, GOM e Nucleo Traduzioni Cittadino) e, alla fine, Carabinieri si succedettero e si sovrapposero, nel caos generale, senza un ordine e senza una effettiva assunzione del comando da parte di nessun ufficiale, in un crescendo di violenza, sopruso, prevaricazione e negazione dei più elementari diritti.

Nessuno, né il Genoa Social Forum né gli avvocati che in quei giorni prestavano servizio di assistenza legale, erano al corrente dell’esistenza di un carcere temporaneo a Bolzaneto. Se ne viene a conoscenza in itinere, quando i manifestanti arrestati letteralmente “spariscono” e si comincia a parlare della caserma Bixio.

Nessuno dei difensori riuscirà tuttavia ad accedere, perché il Dott. Meloni, allora a capo della Procura Genovese, accoglie le richieste delle forze dell’Ordine e firma un ordine di differimento dei colloqui, una deroga al diritto dell’arrestato a conferire con il difensore, ai sensi dell’art. 104 c.p.p.

Soltanto giorni dopo, presso le carceri di Pavia, Alessandria, Voghera e Vercelli, i difensori incontreranno i prigionieri, che cominceranno a squarciare il velo sulle atrocità di Bolzaneto.

Stesso passaggio dall’incredulità all’orrore, toccherà ai GIP incaricati di convalidare gli arresti.

I magistrati, attoniti, dovranno riconoscere, sin dalle prime battute, quello che sarà il tema portante dell’intero processo, l’incontrovertibile sigillo di verità che l’apparato accusatorio porterà con sé: le testimonianze dei ragazzi sono assolutamente coerenti tra loro.

Decine di persone, provenienti da nazioni diverse, che parlano lingue diverse e sono recluse in carceri diversi, raccontano tutte le medesime cose.

Vengono aperte le indagini.

Le testimonianze dei manifestanti, per quanto concordanti e precise, portano gli inquirenti sulla porta di un vero e proprio labirinto e le numerose richieste rivolte ai corpi e ai reparti delle Forze dell’Ordine presenti, volte a ricostruire i turni, effettuare riconoscimenti fotografici, raccogliere ulteriori informazioni, rimbalzano su un muro di gomma.

Riscontri evasivi, fotografie tratte da tesserini di riconoscimento vecchi di trent’anni, metaforiche mani alzate in risposte di presunta impotenza.

Ai Pubblici Ministeri Francesco Ranieri Miniati e Patrizia Petruzziello, non resta che arrendersi di fronte all’impossibilità di ricondurre i fatti a persone fisiche e costruire un apparato probatorio sufficiente a sostenere nel processo l’accusa di aver messo in atto comportamenti e trattamenti riconducibili alla tortura.

Nell’ottobre del 2003, quando l’indagine sta per chiudersi con pochi fatti minori accertabili e riconducibili a persone identificate, a seguito alle rivelazioni del periodico Panorama e delle prime ammissioni da parte di due esponenti della Polizia Penitenziaria, viene disposto un supplemento di indagine.

Agli agenti si aggiungono due dei sanitari presenti a Bolzaneto dal 21 al 22 luglio che decidono di raccontare cosa hanno visto e sentito.

Grazie anche alle loro testimonianze, nel mese di gennaio del 2004, i Pubblici Ministeri firmano 47 richieste di rinvio a giudizio.

Un agente sceglierà il rito abbreviato.

Delle altre 46, ben 45 supereranno il vaglio dell’udienza preliminare e giungeranno all’apertura del dibattimento insieme con la maggior parte dei capi di imputazione. I reati contestati sono abuso d’ufficio, violenza privata, abuso di autorità contro detenuti o arrestati, violazione all’ordinamento penitenziario e della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, minacce, percosse, lesioni, falso.

I Pubblici Ministeri hanno con abilità e tenacia predisposto un castello accusatorio solido e precisissimo, dal quale hanno espunto con rigore qualsiasi episodio o circostanza non sostenuta da riscontri molteplici e attendibili.

Nel corso del dibattimento, che si aprirà il 12 ottobre 2005 davanti al Collegio e si concluderà il 30 ottobre 2007 dopo 157 udienze, l’accusa ricostruisce gli afflussi di detenuti dal 20 al 22 luglio e la loro permanenza all’interno della caserma.

Le deposizioni di ciascuno vengono incrociate con quelle degli altri presenti negli stessi orari.

La pianta della caserma e il materiale fotografico raccolto nel corso delle indagini vengono proiettate continuamente nel corso delle deposizioni, così come le immagini che ritraggono le divise dei diversi corpi presenti.

Vengono individuati i punti principali del “percorso” che ogni prigioniero compiva all’interno della caserma e, attraverso gli ordini di servizio e i riconoscimenti effettuati, si individua il personale presente.

In questo modo è possibile risalire ai responsabili dei singoli episodi.

Vengono inoltre individuati differenti livelli di responsabilità tra i diversi componenti delle forze dell’ordine presenti.

I “livelli apicali”, ovvero i soggetti che a Bolzaneto si collocavano al vertice degli operanti della Polizia di Stato presente e dell’Amministrazione Penitenziaria e quindi avevano il potere e il dovere di verificare il loro operato, sia in relazione all’organizzazione generale che relativamente ai singoli episodi. Partendo dal presupposto che chi a Bolzaneto ha visto e percepito tutto quello che è accaduto senza intervenire si è di fatto reso concorrente nei reati commessi, saranno chiamati a rispondere, ai sensi dell’art. 40 c.p. (secondo cui «Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo»), dei reati commessi dai sottoposti.

Sono definiti “incaricati della vigilanza“ i soggetti che si trovavano al comando di singole squadre, responsabili della vigilanza dei fermati per periodi di tempo sostanzialmente legati a turni di lavoro.

Con il termine “livello intermedio“ si sono invece indicati i soggetti, componenti delle squadre incaricate della vigilanza con grado di sottufficiale o equivalenti, che hanno dato esecuzione alle direttive dei rispettivi comandanti, organizzando nella pratica la vigilanza.

Gli “esecutori materiali“ sono infine i soggetti che sono stati identificati come autori di singoli e ben determinati fatti di reato ai danni di persone offese, a loro volta specificamente individuate.

Vi sono poi i medici e gli infermieri dell’Amministrazione Penitenziaria.

L’affresco bruegeliano che ne emerge, racconta una vera via crucis collettiva, reiterata, evidente e voluta o quanto meno tollerata da tutti gli operanti e dai loro superiori:

  • Il cortile esterno dove giungevano i mezzi e si scaricavano i prigionieri. Qui incontravano il “comitato di accoglienza” che li accompagnava con insulti, spinte e percosse mentre scendevano dai blindati e dalle auto nel cortile fino all’ingresso della caserma. Erano presenti per lo più agenti della Squadra Mobile della Polizia di Stato, sia perché sostavano qui dopo aver portato gli arrestati, in attesa della redazione dei verbali, sia per la prossimità con la palestra, ove era collocato l’ufficio per le fotosegnalazioni. Vi erano inoltre operanti dei GOM (Gruppo Operativo Mobile della Polizia Penitenziaria) e del NTC (Nucleo Traduzioni Cittadino). Presso gli scalini di ingresso il Dottor Toccafondi e la sua equipe effettuavano il primo triage medico. Di qui si accedeva all’edificio principale e, superato l’androne si arrivava agli uffici dove il personale della Digos e della Squadra Mobile completava la redazione dei verbali. Da lì si percorreva un corridoio lungo circa 50 metri, sul quale si affacciavano i bagni e le docce sulla sinistra, poi l’infermeria e la matricola (una di fronte all’altra) e infine, sulla sinistra, i due locali destinati alla permanenza del personale della Polizia di Stato e della Polizia Penitenziaria che custodiva le rispettive camere di sicurezza, poste di fronte sul lato destro.
  • Lungo il corridoio i detenuti venivano fatti transitare tra due ali di agenti che li insultavano, li percuotevano e sputavano loro addosso, intralciavano il loro passaggio facendoli incespicare. Il corridoio doveva essere percorso con le mani dietro la nuca e la testa spinta verso le ginocchia. Questo avveniva sia all’ingresso che in occasione degli spostamenti successivi. Da lì i prigionieri venivano collocati nella prima cella, a disposizione della Polizia di Stato e controllati dagli agenti della medesima. Solo sabato 21 la custodia di questa cella sarà affidata ai Carabinieri.
    Al personale della Polizia di Stato, si aggiungono invece, nella giornata del 20 luglio, due squadre dei Reparti mobili, alle quali viene verbalmente ordinato di restare in caserma per aiutare nella redazione dei verbali e nella custodia dei prigionieri.
    Il 22 luglio la custodia ritorna appannaggio del VI Reparto Mobile, abitualmente di istanza alla Nino Bixio.
  • Le celle nelle quali molti dei prigionieri arrivarono di notte o la notte videro sopraggiungere e poi sbiadire, erano completamente vuote, dotate di ampie finestre che vennero tenute sempre aperte. Non c’erano coperte e molti avevano canottiere e indumenti leggeri e tutti ebbero freddo nel corso della notte. In diverse occasioni, agenti dei reparti mobili approfittarono delle finestre aperte sul cortile per spruzzare all’interno gas urticante sui fermati.
    A parte questo, le persone vennero tenute per ore in piedi, con la faccia al muro, le gambe e le braccia divaricate. Chi non teneva la posizione veniva percosso con calci, pugni, manganellate. Erano frequenti le minacce (spesso a sfondo sessuale) e gli insulti per lo più di carattere politico. Non era possibile andare in bagno se non dopo lunghe attese ed estenuanti richieste. Se si veniva ascoltati, si doveva passare necessariamente nel corridoio e poi restare con la porta del bagno aperta soli con l’agente che aveva eseguito l’accompagnamento. Diversi prigionieri furono visti tornare dai bagni piangendo per il trattamento subito. Per questi motivi diverse persone furono costrette a urinarsi addosso e furono poi insultate e umiliate per questo dagli agenti.
    Nelle celle resteranno visibili le tracce di sangue e materiali organici sul pavimento e sulle pareti.
    Non vengono somministrati né cibo né acqua fino alla mattina del 22 luglio quando viene distribuita qualche bottiglietta e qualche biscotto.
    Nel pomeriggio del 21 un carabiniere di leva, prendendo servizio, si periterà di recuperarne alcune bottigliette al distributore. Questo giovane dell’Arma verrà nel corso del processo indicato come “il Carabiniere buono” per avere, unico tra tutti gli operanti di quei giorni, assolto agli obblighi minimi imposti dalla divisa, oltre che dall’appartenenza al genere umano.
  • Dalle camere di sicurezza i fermati venivano spostati, uno per volta o a gruppi, e sempre ad opera dello stesso personale, presso gli Uffici della Digos o della Squadra Mobile per l’identificazione, la notifica dei verbali e la redazione definitiva di tutti gli atti relativi all’arresto previsti dalla legge. Con le stesse modalità e dallo stesso personale spostati alla palazzina (ex palestra) ove erano installate le apparecchiature della Polizia di Stato per il fotosegnalamento e la ricerca e l’inserimento dei dati nei terminali.
    Molti degli arrestati chiederanno di comprendere quello che firmano, essendo stranieri, o di esercitare i propri diritti, ma tutto ciò viene sistematicamente negato, spesso con minacce e umiliazioni. La maggior parte dei verbali redatti risulterà falsa, anche in ordine alle circostanze e alle modalità degli arresti, che infatti non verranno convalidati. È qui che si compiranno i primi tentativi di riscrittura della storia della piazza di Genova, già prima dell’atroce messa in scena della Diaz.
    Dopo tali operazioni i fermati venivano consegnati alla Polizia Penitenziaria, che da questo momento si occupava anche della vigilanza, assumendo la veste di arrestati e venivano spostati nella rispettiva cella di pertinenza.
  • Dalla camera di sicurezza gli arrestati venivano prelevati e condotti in “matricola” per le formalità di primo ingresso: si procedeva all’identificazione, a un secondo fotosegnalamento, al rilievo delle impronte digitali e alla redazione del c.d. verbale di primo ingresso contenente tra l’altro le indicazioni del detenuto circa i familiari che avrebbe voluto eventualmente avvisare in caso di necessità e le dichiarazioni circa supposti pericoli per la propria incolumità; per gli stranieri il verbale prevedeva anche la manifestazione di volontà circa l’avviso alla Autorità Diplomatiche, nonché informazioni sulla conoscenza della lingua italiana. Saranno proprio i verbali falsi, la mancata nomina dei legali, le violazioni sistematiche delle norme sui diritti dei prigionieri a creare il “buco nero” in cui le vittime di Bolzaneto spariranno per giorni. Amici, familiari, organizzazioni di riferimento, difensori ed Ambasciate perderanno completamente le loro tracce fino all’arrivo alle carceri di destinazione, quando gli stessi operatori penitenziari si renderanno conto che qualcosa di brutto è accaduto a quei ragazzi sporchi, feriti, stanchi, affamati, assetati e spaventati e, finalmente, difensori e magistrati potranno vederli ed ascoltarli.
  • Dalla matricola ogni arrestato viene poi condotto in infermeria, dove si procede immediatamente alla perquisizione e, conclusa la perquisizione, si sarebbe dovuto dare corso alla vera e propria visita medica di primo ingresso, con relativa compilazione del diario clinico; il medico avrebbe quindi dovuto rilasciare il nulla-osta alla traduzione. In realtà il plurindagato e mai radiato Dott. Toccafondi e le Dottoresse Zaccardi e Sciandra, coadiuvati dall’ equipe e dagli agenti presenti, faranno denudare gli arrestati e faranno loro compiere flessioni.  I diari clinici compilati e firmati risulteranno clamorosamente falsi: vengono attribuite false dichiarazioni, malattie e dipendenze mai esistite mentre si ignorano ferite gravi, malori e contusioni, si certificano visite mai compiute, vengono rivolte minacce e insulti, strappati piercing e tagliati dreadlocks, fatte spogliare completamente le ragazze davanti a personale di polizia maschile, proferiti insulti e minacce, lacerata la mano di un prigioniero divaricandogli le dita. Nessuno degli effetti personali strappati da Toccafondi e dai suoi sarà più ritrovato. Da qui i prigionieri vengono di nuovo collocati presso la cella della Polizia Penitenziaria in attesa del mezzo che li tradurrà in carcere.

I tempi di permanenza nelle celle e nella caserma in generale, seguono, in crescendo, il numero dei fermati e degli arrestati e l’azione repressiva indiscriminata che si va conducendo per le strade di Genova.

Nella giornata di venerdì si hanno afflussi contenuti nell’ambito delle previsioni iniziali, per lo più di fermati e la permanenza media varia tra le 8 e le 12 ore.

Più grave la situazione per gli arrestati del sabato che resteranno a Bolzaneto anche per tempi superiori alle 24 ore.

Gli arrestati della domenica provengono dalla Diaz, giungono a Bolzaneto prima dell’alba e vi rimangono fino a 35 ore.

Gli insulti e le minacce che accompagnano tutta la permanenza all’interno della caserma fanno spesso «riferimento alla morte di Carlo Giuliani e ad una asserita non veritiera uccisione di appartenenti alle Forze dell’Ordine da parte dei manifestanti, con conseguente “necessità di pareggiare i conti“. Molti gli insulti con riferimento alla fede politica di sinistra; come contraltare vi era la costrizione ad ascoltare motivi e filastrocche inneggianti al fascismo, al nazismo e ad ideologie di destra; spesso suonava in cella o dall’esterno un cellulare con il motivo “Faccetta nera bella abissina “. Alcuni hanno testimoniato di essere stati costretti a fare il saluto fascista, altri addirittura a fare il “passo dell’oca”, altri ancora a gridare “Viva il duce “, “Viva Mussolini”, “Heil Hitler”. Molti hanno ricordato riferimenti ad Auschwitz, ai lager e all’antisemitismo.» (dalla memoria depositata dai Pubblici Ministeri al termine del dibattimento).

Oltre alle percosse generalizzate, le sofferenze fisiche provate nel corso del dibattimento sono molte: uno dei ragazzi provenienti dalla Diaz arriva con la mandibola e i denti spezzati e viene per questo deriso, una persona con arto artificiale viene duramente picchiata, almeno 8 tra i prigionieri accusano malori o svenimenti, altri vomitano a seguito dell’immissione di gas urticante dentro le celle, molti hanno ferite alla testa, alla schiena e agli arti.

Al termine della requisitoria, i Pubblici Ministeri formuleranno richieste di condanna per complessivi 76 anni, quattro mesi e 20 giorni di reclusione, specificando che «Quello che avvenne a Bolzaneto fu un comportamento inumano e degradante ma, non esistendo una norma penale (per la quale l’Italia è inadempiente rispetto all’obbligo di adeguare il proprio ordinamento alla convenzione internazionale), l’accusa è stata costretta a contestare agli imputati l’art.323 (abuso d’ufficio) che comunque sarà prescritto nel 2009. L’unico reato per cui sono richieste 10 anni per la prescrizione è il falso ideologico».

La sentenza di primo grado giungerà il 14 luglio del 2008 e vedrà 15 condanne e 30 assoluzioni a fronte delle 45 condanne richieste dai PM all’esito del dibattimento per un totale di 24 anni di carcere oltre ad un risarcimento per i danni cagionati di circa 4 milioni di Euro a carico dei condannati e due Ministeri competenti.

La sentenza verrà impugnata anche dalla Procura e il giudizio di secondo grado si aprirà nel 2009.

Il 5 marzo 2010 i giudici d’appello di Genova, ribaltando la decisione di primo grado, condanneranno 44 imputati su 45. La maggior parte dei reati è ormai prescritta, ma restano in vigore i capi civili della sentenza e dunque l’obbligo, in solido tra i condannati e per i Ministeri di riferimento, di risarcire le parti civili costituite e di rifondere le spese legali. La cifra complessiva supera i dieci milioni di euro. Ormai la storia di Bolzaneto è universalmente conosciuta e anche Amnesty International sottolineerà l’importanza della sentenza, che riconosce che a Bolzaneto vi furono «gravi violazioni dei diritti umani» laddove il collegio di primo grado aveva parlato, in assenza della previsione del reato di tortura, di “trattamenti inumani e degradanti”.

Fu chiaro a tutti, in entrambi i gradi di giudizio, che se l’Italia non si fosse resa inadempiente rispetto agli obblighi derivanti dalla firma della Convenzione ONU contro la Tortura del 1988 e avesse introdotto il reato corrispondente, le pene sarebbero state diverse e i reati non si sarebbero prescritti.

Il 14 giugno 2013 la sentenza della Corte di Cassazione, senza ridurre la valutazione della gravità dei fatti, ridurrà però gli importi dei risarcimenti dovuti, rinviando alcuni di essi all’eventuale vaglio in sede civile.

Nel 2014, 59 persone, tra le vittime di Bolzaneto si appelleranno agli organi giuridici della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

Il 21 dicembre 2015, il Governo Italiano pone all’attenzione della Corte una proposta di transazione.

Al di là della cifra proposta, la transazione include, come premesse, una serie di considerazioni in merito al comportamento corretto e diligente tenuto dallo Stato Italiano nel suo complesso nei confronti delle vicende occorse nella Caserma di Bolzaneto e del successivo percorso giudiziario.

La maggior parte dei ricorrenti considera inaccettabili tali premesse e chiede alla Corte Europea una pronuncia definitiva.

Il 26 ottobre del 2016, due mesi dopo l’introduzione del reato di tortura nel nostro ordinamento, la sentenza della Suprema Corte Europea, riconoscerà pienamente la gravità dei comportamenti messi in atto dalle forze dell’ordine italiane a Bolzaneto, dagli esecutori materiali fino ai vertici, la prolungata e assoluta sospensione di ogni diritto subita dai prigionieri di Bolzaneto ad opera delle Forze dell’Ordine di uno stato democratico, ma non solo. La Corte giudicherà severamente la condotta dello Stato Italiano nel suo complesso in tutta la vicenda, compresa la fase giudiziaria: l’atteggiamento di omertà e mancata collaborazione dei corpi e dei ministeri  durante le indagini, il fatto che nessuno dei condannati è di fatto mai stato in carcere, l’inadeguatezza dei mezzi di identificazione degli operanti tramite distintivo, le lacune strutturali dell’ordinamento italiano, la mancanza della previsione del reato di tortura al momento dei fatti.

Sono proprio queste questioni, così chiare ed evidenti ad un osservatore imparziale ed esterno, ad indicare la grande occasione mancata del dopo Bolzaneto.

Al di là della vastità e della disumanità delle sofferenze inflitte, Bolzaneto è stato una sorta di bolla spazio temporale nella quale, per una serie concomitante di eventi imprevisti e disastrosi, si sono concentrati ed hanno trovato libera espressione un modus operandi e dei paradigmi culturali tutt’altro che inusuali nelle Forze dell’Ordine. Non si è trattato di una follia temporanea   tempestivamente sfruttata da un manipolo di “mele marce”: chiunque abbia a che fare con il carcere, chi frequenta quotidianamente le aule penali, lo sa bene.

La mancanza di una linea di comando definita e l’impossibilità non scritta, ma imprescindibile, per gli ufficiali presenti di imporsi a uomini non formalmente consegnati al proprio comando o di mettere in discussione un pari grado, hanno creato condizioni particolari in cui si sono espressi paradigmi comportamentali acquisiti e in qualche modo consueti.

L’omertà come valore, il detenuto vissuto e riconosciuto come nemico a prescindere, la violenza come cifra del rapporto con l’altro, la subcultura di estrema destra vissuta come codice morale ed etico di riferimento, sono tutti aspetti che la vicenda di Bolzaneto ha messo in luce in tutta la sua spaventosa evidenza.

Se ci fosse stato il coraggio di guardarli davvero, e di affrontarli, forse altri drammi a venire si sarebbero potuti evitare.

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[ultimo aggiornamento luglio 2021]