Processo ai 25 per Devastazione e Saccheggio

«Devastazione e saccheggio» è un reato che non era stato più̀ contestato dall’immediato dopoguerra e che è stato rispolverato dalla Procura di Genova per i fatti del G8 del 2001. Gli elementi che integrano il reato sono l’ordine pubblico messo in crisi e il danneggiamento ripetuto di beni, anche tramite compartecipazione psichica tra gli imputati. Per dirla in breve, non occorre aver effettivamente devastato, ma è sufficiente essere presente mentre gli altri devastano.

Le indagini che porteranno al rinvio a giudizio di 25 manifestanti cominciano subito dopo il G8, quasi esclusivamente grazie a immagini e video di varia provenienza, diramati a tutte le Digos italiane. L’indicazione che arriva è di mettere un nome a tutte le facce possibili.  Si controlla chi è arrivato in treno e poi si cerca la stessa persona in piazza, in modo da poter dimostrare che oltre a essere a Genova era effettivamente in strada.

Questo procedimento porta a una quarantina di identificazioni. Di queste 40 persone, 23 vengono arrestate il 4 dicembre 2002.
Le indagini proseguono anche con intercettazioni in carcere. Saranno chiuse nel giugno 2003, quando viene formulata la richiesta di rinvio a giudizio e fissata l’udienza preliminare a dicembre 2003. Durante l’udienza preliminare la difesa cerca inutilmente di ottenere la modifica del capo di imputazione, devastazione e saccheggio. La Procura modifica l’imputazione ma in un altro senso: elimina molte delle parti offese originariamente individuate, liberandosi così di un evidente punto debole.

L’esito dell’udienza preliminare ha un aspetto decisamente inusuale: il GUP rinvia a giudizio tutti gli imputati e fissa la prima udienza dibattimentale per il 2 marzo.
La strategia della Procura è quella di dimostrare un unico disegno, in cui le tute bianche hanno approfittato dei disordini creati dal blocco nero, e sono quindi colpevoli di concorso nella devastazione. Obiettivo della difesa è smontare il teorema dell’accusa attraverso l’analisi puntuale dei reperti e il controesame dei testi.
Le udienze si aprono il 2 marzo 2004. Alcuni difensori degli imputati chiedono lo spostamento del processo in una sede differente da Genova, considerata pregiudizievole per la serenità̀ del giudizio in quanto prevenuta rispetto ai manifestanti. In effetti l’udienza si svolge all’interno dell’aula bunker, in un’atmosfera surreale, con il Tribunale blindato. Vengono proposte alcune questioni preliminari fra le quali il difetto di notifica al secondo difensore di uno degli imputati. La sua posizione viene pertanto stralciata e verrà trattata in un procedimento separato.

I 26 diventano 25.
Si procede alla costituzione delle parti civili, con l’esclusione del Comune di Genova, di Area Banca e di Abc service per vizi sostanziali o, come per il Comune, di forma.
Successivamente, si passa alla formazione del fascicolo del dibattimento, ovvero la cernita degli atti che possono essere portati da subito a conoscenza del collegio giudicante: vengono considerati non depositabili alcuni atti della Procura fra cui le intercettazioni, effettuate in carcere, di conversazioni fra alcuni degli arrestati e i loro familiari.
Nella parte riservata alla richiesta prove, la discussione si concentra da subito sui video e sulla loro ammissibilità̀ come prova, dal momento che la Procura decide di gestire questo processo quasi integralmente provando i fatti tramite le immagini.
I difensori chiedono di poter avere accesso all’archivio completo del materiale utilizzato dalla Procura, segnalando l’esistenza di un enorme fascicolo a carico di ignoti (al quale nessun difensore può̀ avere accesso, dal momento che non esistono indagati) dal quale l’accusa ha pescato le immagini che riteneva rilevanti.
Inoltre, i difensori degli imputati fanno presente di non aver ancora ottenuto copia del materiale depositato all’interno di questo fascicolo e di non essere quindi in grado di procedere al controesame dei testi portati dall’accusa, che testimonieranno, quasi tutti, con l’ausilio di supporti video o fotografici. Il Tribunale «invita» quindi la Procura a consegnare alla difesa copia del materiale video fotografico depositato in tempi brevi e concede un termine ai difensori per visionare il materiale.
Il primo testimone dell’accusa è l’ispettore Corda (istruttore della Polizia Municipale, sezione di Polizia Giudiziaria), incaricato dai PM di ricostruire e situare cronologicamente, per sostenere l’accusa di devastazione e saccheggio, alcuni dei fatti commessi a Genova nei giorni 20 e 21 del luglio 2001.
Durante l’esame di questo teste, utilizzando i tre DVD da lui prodotti, viene “ricostruita” la storia di quei giorni. Sarebbe questa la prova regina dell’ accusa nel processo.
In realtà̀ il video prodotto da Corda è un montaggio e, come ogni montaggio, non è assolutamente una ricostruzione neutra dei fatti, ma un’interpretazione realizzata in modo da proporre allo spettatore un messaggio preciso attraverso immagini accuratamente selezionate, poste in studiata sequenza ed il più̀ possibile suggestive.
Corda, nonostante l’opposizione dei difensori che presentano il problema al Tribunale, viene ascoltato dai PM, mentre alle difese è consentito di rinviare il controesame fino al momento in cui i consulenti tecnici dei difensori avranno avuto modo di analizzare integralmente i materiali depositati dalla Procura in questo procedimento.
Nel frattempo alla Procura viene consentito solo l’esame di testimoni che possano essere ascoltati senza l’ausilio delle immagini. Comincia quindi una serie di testimonianze di responsabili di uffici bancari, autosaloni ed altri esercizi commerciali danneggiati durante le giornate di Genova.
A questi, quasi nessuno presente ai fatti e quindi di scarso interesse, seguono testimonianze di privati cittadini che hanno potuto osservare dalle loro finestre quanto accadeva in strada. L’unico dato rilevante di tali testimonianze è il fatto che venga più̀ o meno ripetuto da tutti l’atteggiamento non pericoloso o aggressivo nei confronti delle persone da parte dei manifestanti. Tra i vari testimoni che si susseguono spicca la deposizione del cronista Gianluca Scaduto, presente alla prima carica del corteo dei disobbedienti. Scaduto racconta che il corteo era fermo e che da lì̀ nulla venne lanciato. Ai Carabinieri schierati in via Invrea all’incrocio con corso Torino sarebbero stati lanciati, secondo il teste, «due o tre sassi» provenienti da un gruppetto di persone posizionate all’angolo di via Tolemaide. La reazione dei Carabinieri a questi tre sassi è nel suo ricordo un fitto lancio di lacrimogeni seguito dalla carica al corteo delle tute bianche.
Il processo entra veramente nel vivo quando finalmente la difesa, avendo avuto modo di visionare le copie video e fotografiche della Procura, contesta la genuinità̀ del materiale video ed evidenzia la possibilità̀ che gli originali fossero stati «manipolati».
Su questi punti vengono presentate tre memorie da parte dei difensori e dei consulenti tecnici della difesa che rilevano, da un lato, la non corrispondenza fra gli originali dei video e le copie depositate dalla Procura nel procedimento (nelle quali sono stati individuati tagli evidenti) e dall’altro, e ancora una volta, il fatto che la difesa non ha potuto avere accesso all’intero complesso del materiale video, presente nel faldone del procedimento contro ignoti, e sul quale ha invece lavorato sin dall’inizio la Procura. Su questa lesione del diritto di difesa, i difensori degli imputati valutano l’opportunità̀ di sollevare un’eccezione di costituzionalità̀ (che, in caso di accoglimento, annullerebbe il processo riportandolo in udienza preliminare).
Nel corso dell’ultima udienza prima della pausa estiva, che si tiene il 13 luglio 2004, i PM chiedono termine al fine di contestare le memorie della difesa ed il Collegio rinvia la decisione sui materiali video fotografici al 17 settembre. La decisione del Tribunale sarà̀ quella di acquisire i DVD di Corda («riservata ogni valutazione in merito all’efficacia probatoria del loro contenuto»), mentre il restante materiale video e fotografico verrà̀ acquisito di volta in volta, se ritenuto rilevante e pertinente rispetto al teste. Con una successiva ordinanza il Presidente del Tribunale Devoto specificherà̀ ancora che solo nel caso in cui il teste riconosca nel video se stesso o una specifica situazione di cui è stato protagonista, il video relativo potrà̀ essere acquisito come prova.
Nei mesi che seguono, sfilano uno ad uno i testi-chiave dell’accusa: vale a dire i poliziotti e i Carabinieri che comandavano i vari contingenti schierati per le strade di Genova nel luglio 2001, tra i quali i responsabili delle cariche e dei pestaggi indiscriminati disposti e condotti per tutelare il cosiddetto “Ordine Pubblico”.

Uno dei più̀ importanti sarà̀ il Primo Dirigente della Polizia di Stato Pasquale Zazzaro, responsabile, nei giorni del G8, della Centrale Operativa della Questura. In altre parole, si tratta del poliziotto che teneva le fila delle comunicazioni radio indicando ai dirigenti di piazza dove spostare i contingenti e quali operazioni effettuare, sulla base di ordini ricevuti dal Questore o delle richieste fatte dagli stessi dirigenti in piazza.

Zazzaro si ricorda poco o niente, ma in realtà̀ è una figura molto importante, in quanto la sua audizione consentirà̀ alla difesa di entrare in possesso di tutte le comunicazioni radio passate per la centrale operativa della Questura (non quelle dei Carabinieri quindi) durante le giornate di luglio 2001, che verranno largamente utilizzate nelle udienze successive.

Tra i vari poliziotti e Carabinieri che si sono susseguiti sul banco dei testimoni, molto significativi per la ricostruzione della difesa sono stati il Primo Dirigente di PS Mondelli, il capitano dei CC Bruno e il Dirigente del Commissariato di PS Centro Gaggiano: tutti e tre chiamati a testimoniare principalmente sugli scontri di via Tolemaide e che di fatto consentono la prima ricostruzione completa della carica al corteo autorizzato delle tute bianche. Mario Mondelli è il PS Dirigente di piazza e in quanto tale responsabile del contingente dei Carabinieri che ha caricato il corteo dei disobbedienti, mentre il Capitano Antonio Bruno è il CC che comandava quel contingente (il III BTG. Lombardia). Dalla loro testimonianza emerge che la prima carica contro il corteo delle tute bianche (partita intorno alle ore 15) è stata un’iniziativa autonoma e improvvisa dei Carabinieri e non, come era sembrato fino ad allora, una scelta fatta dal responsabile dell’ordine pubblico di quel corteo (il PS Angelo Gaggiano). Una carica violenta che travolge prima i numerosi giornalisti che si trovavano all’incrocio tra corso Torino e via Tolemaide, e poi il corteo di 10.000 persone che stava avanzando pacificamente lungo un percorso autorizzato.

Con la testimonianza del capitano Antonio Bruno (udienza del 16 novembre 2004), la difesa segna un punto importante anche sotto un altro aspetto. Grazie al materiale video e fotografico utilizzato, infatti, gli avvocati dimostrano (e Bruno, di fronte all’evidenza delle immagini, non può̀ far altro che confermare) che i Carabinieri hanno caricato il corteo utilizzando non i normali manganelli in dotazione all’Arma (i tonfa) ma diversi tipi di oggetti contundenti fuori ordinanza, mazze di ferro comprese.

Il 2005 si apre con la testimonianza di Angelo Gaggiano, che si protrae per tre interminabili udienze. Gaggiano è sentito in quanto responsabile di piazza per il corteo della disobbedienza il giorno 20 luglio, e responsabile del corteo internazionale il giorno 21. La sua testimonianza è confusa, piena di imprecisioni che spesso sembrano menzogne costruite ad arte per sviare la difesa. Il giorno 20 luglio Gaggiano stazionava con i suoi contingenti in piazza Verdi, in attesa del corteo delle tute bianche che scendendo da via Tolemaide avrebbe dovuto arrivare lì. Ma il corteo non arriverà̀ mai. Verrà̀ caricato prima dai Carabinieri di Bruno e poi dallo stesso Gaggiano (circa un’ora più̀ tardi). Ma Gaggiano la prima carica non la vede proprio, e arriva a sostenere che non c’è mai stata.

Le evidenti reticenze, anche di fronte a immagini inequivocabili, convincono la difesa a chiedere al Tribunale di valutare l’attendibilità̀ del teste. La difesa produce una precedente sentenza di condanna per ricettazione. Una storia vecchia, che potrebbe non essere significativa. Ma Gaggiano (è più̀ forte di lui) mente ancora una volta, raccontando che aveva «comprato un mobile». Il Presidente del Tribunale, dopo un’occhiata alla sentenza, lo corregge: era stato condannato per avere venduto mobili rubati. Il Presidente lo congeda seccamente. Gaggiano non è stato un teste attendibile.

Dopo Gaggiano si susseguono altri testi, relativi a via Tolemaide e a piazza Alimonda, come il vice Questore aggiunto Fiorillo, il Tenente dei Carabinieri Mirante, il Capitano Ruggeri (del BTG. Paracadutisti Tuscania), il Capitano Cappello (presente in piazza Alimonda), e il giornalista Giulietto Chiesa. Quest’ultimo, che è anche un teste della difesa, riconferma la ricostruzione della prima carica contro il corteo delle tute bianche.

Il 13 maggio 2005 l’avvocato Vittorio Colosimo annuncia la volontà di Placanica di presentarsi in aula per testimoniare sui fatti («Mario Placanica risponderà a tutte le domande dei cento avvocati dei no global, del pubblico ministero e del presidente del tribunale. Dirà tutto quello che sa come ha fatto fin dall’inizio»). Il 26 settembre 2005, durante l’udienza del processo contro i No Global, Placanica si avvale tuttavia della facoltà di non rispondere, concessagli, pur essendo chiamato come testimone e non come indagato, in quanto già indagato a sua volta nel procedimento per la morte di Carlo Giuliani.

Infine dall’ottobre 2005 è stato sentito il teste Zampese (Digos di Genova): nel corso di decine di udienze il teste ha esposto al Tribunale la ricostruzione dei fatti, i comportamenti degli imputati e i relativi riconoscimenti secondo la versione elaborata dalla Polizia e dalla Procura. La tecnica è quella di un esame fotogramma per fotogramma di ore di filmati soffermandosi su particolari di vestiario utili al riconoscimento delle persone; nessuno spazio è dedicato alla ricostruzione dei comportamenti delle forze dell’ordine: il risultato è che le azioni dei manifestanti sono ancora una volta decontestualizzate. A febbraio 2006 il processo viene rinviato a settembre a causa dell’impegno improvviso del Presidente Devoto come membro supplente del CSM.

Dopo una lunga pausa il processo ai 25 manifestanti riprende a gennaio 2006 con la conclusione della ricostruzione, che proseguirà fino al febbraio 2007, dell’ispettore Zampese.

Come ultimo teste dell’accusa viene ascoltato il colonnello Truglio comandante delle compagnie CCIR (Compagnie di Contenimento e Intervento Risolutive) durante il g8 e membro del Tuscania. Il colonnello è presente su uno dei due Defender lasciati a chiusura della colonna che si erano mossi su via Caffa e che si ritirano in piazza Alimonda. La sua deposizione è imprecisa e lacunosa. Truglio in aula racconta che vede un manifestante cadere a terra che viene investito dal Defender assediato in piazza. Singolare è questa sua ricostruzione della morte di Carlo Giuliani come il fatto che neghi più volte di aver udito colpi di pistola.

Successivamente si passa ai testi della difesa. Vengono analizzati così i movimenti e le azioni delle FFOO in particolar modo per quanto concerne Via Tolemaide e Piazza Alimonda. Le numerose testimonianze mettono in rilievo le successive cariche dei Carabinieri e delle forze di Polizia al corteo autorizzato delle Tute Bianche. In questi ultimi mesi vengono a deporre in tribunale parlamentari, portavoce di movimento, medici, giornalisti e operatori media. Tra i deputati si ricorda Paolo Cento. Quest’ultimo faceva parte del gruppo di parlamentari a seguito del corteo che dallo stadio Carlini doveva arrivare alla stazione Brignole. L’onorevole mette in evidenza come la carica delle FFOO alle tute bianche fosse del tutto immotivata.  Sono stati sentiti anche i parlamentari Bulgarelli, De Petris, Zanella, De Cristofaro, Giordano, Mantovani, Mascia e Martone i quali hanno ribadito la loro difficoltà ad avere contatti con le forze dell’ordine presenti in strada e quindi di mediare tra le stesse e i manifestanti. Vengono a testimoniare anche membri del GSF come Vittorio Agnoletto, Raffaella Bolini e Luca Casarini., che hanno raccontato come i rapporti del GSF con il capo della Polizia De Gennaro a un certo punto si erano interrotti e dovettero rapportarsi unicamente con Andreassi.

Non era chiaro con quali soggetti si potesse realmente interloquire e perché fu lasciata così grande autonomia d’azione ai CC il venerdì 20 luglio. A giugno è la seconda volta in aula di Mario Placanica che decide di testimoniare. Purtroppo neanche in questa occasione il Carabiniere che sparò a Carlo Giuliani riesce a fare chiarezza su ciò che accadde in Piazza Alimonda. Un susseguirsi di dubbi e contraddizioni predominano nella sua deposizione mentre fa ricadere le colpe sulle forze dell’ordine presenti in piazza che, se fossero intervenute, avrebbero potuto evitare che succedesse qualcosa di grave. Messo alle strette dai manifestanti e ferito alla testa il Carabiniere racconta di aver sparato due colpi in aria. Dice di ricordare che venne a sapere solo più tardi in ospedale della morte di Carlo Giuliani. Il dibattimento si è chiuso martedì 6 luglio con le consulenze tecniche della difesa. Grazie ai video e agli audio prodotti dai consulenti si è voluto evidenziare come la messa in crisi dell’ordine pubblico sia stata causata dalle forze dell’ordine mediante l’ingiustificato attacco al corteo. Anche nel corso di quell’anno abbiamo avuto modo di dimostrare davanti al tribunale l’inconsistenza delle accuse del Pubblico Ministero e abbiamo aspettato con fiducia l’esito del processo con la speranza che 25 persone non finissero in carcere a scontare pene assurdamente sproporzionate rispetto ai fatti di cui sono accusati. Il procedimento è rinviato al 18 settembre per le conclusioni, dopo ben 123 udienze di dibattimento.
La sentenza di primo grado viene emessa il 14 dicembre 2007. 24 manifestanti (su 25 richieste di condanna da parte dei PM) sono stati condannati a complessivi 110 anni circa di reclusione per i fatti del cosiddetto blocco nero e quelli di via Tolemaide. Tra i condannati 10 sono stati giudicati responsabili di devastazione e saccheggio, altri 13 vengono condannati per danneggiamento, 1 per lesioni. Il reato di devastazione per quanto attiene al corteo delle Tute Bianche cade e viene sostanzialmente ricondotto alla resistenza a pubblico ufficiale. Inoltre, la prima fase dei fatti di via Tolemaide con la resistenza alla carica dei Carabinieri, considerata atto arbitrario e non legittimo, è stata scriminata come reazione ad atto arbitrario e di conseguenza non costituisce reato. Rimangono, ovviamente le condanne per resistenza e danneggiamento per quanto accaduto in via Tolemaide e nelle vie limitrofe dopo i primi minuti della carica dei Carabinieri.
Alle condanne penali seguono le condanne sui capi civili, ovvero ai risarcimenti per centinaia di migliaia di euro nei confronti dei Ministeri della Difesa e dell’Interno oltre che dei singoli Carabinieri.

Le testimonianze di due ufficiali dei Carabinieri e due funzionari della Polizia (Antonio Bruno, Mario Mondelli, Paolo Faedda e Angelo Gaggiano) riguardanti la carica e in generale l’operato delle forze dell’ordine in via Tolemaide e nelle vie limitrofe sono state trasmesse ai pubblici ministeri per valutare l’ipotesi di un’accusa per falsa testimonianza (avrebbero riportato nelle loro descrizioni fatti rivelatisi non veri per giustificare il proprio operato). Tuttavia, nessun fascicolo di indagine è mai stato aperto dalla Procura della Repubblica a carico degli ufficiali indicati nel provvedimento del Tribunale.

La sentenza viene ovviamente impugnata da tutti gli imputati condannati.  Il procedimento in appello si conclude il 9 ottobre 2009: 15 manifestanti condannati in primo grado sono stati prosciolti, sia per l’intervento della prescrizione, sia perché la carica dei Carabinieri in via Tolemaide è stata nuovamente valutata come illegittima e quindi la reazione è stata considerata una forma di legittima difesa. Viene confermata altresì l’assoluzione per la manifestante già affermata in primo grado. Ai 10 condannati (accusati di devastazione e saccheggio) sono state applicate pene sensibilmente più gravose rispetto a quelle irrogate in primo grado, per un totale di 98 anni e 9 mesi di carcere (i PM avevano chiesto complessivamente pene per 225 anni per i 25 manifestanti).

L’aumento delle pene, che mantiene gli anni di carcere complessivi quasi inalterati nonostante la forte riduzione dei condannati, è stato pesantemente criticato dalle forze politiche e dalle organizzazioni vicine al movimento no-global, che hanno evidenziato come alcune delle pene inflitte (fino a 15 anni) fossero più elevate di quelle che, usualmente, in Italia vengono date per reati ben più gravi come l’omicidio.
Anche questa pronuncia viene ovviamente impugnata in Cassazione da parte dei condannati.  Il 13 luglio 2012 è avvenuta l’udienza in corte di Cassazione. I difensori hanno chiesto alla corte di non applicare il reato di devastazione e saccheggio, ma quello più lieve di danneggiamento. Il procuratore generale della Cassazione ha chiesto la conferma delle condanne di secondo grado. La Corte ha riconosciuto tutti i manifestanti imputati colpevoli del reato di devastazione e saccheggio. In particolare ha confermato in toto due condanne – Ines Morasca (6 anni e 6 mesi) e Alberto Funaro (10 anni) – e ha rinviato al tribunale d’appello di Genova cinque manifestanti perché venisse rivalutato la mancata applicazione dell’attenuante dell’«aver agito per suggestione di una folla in tumulto» (tra questi le condanne in appello erano di 8 anni di reclusione per Carlo Arculeo e Carlo Cuccomarino, 10 anni e 9 mesi per Luca Finotti, a 8 anni ad Antonino Valguarnera e 7 a Dario Ursino). È stata annullata senza rinvio la condanna per il reato inerente alla detenzione di molotov a Francesco Puglisi (che ha visto diminuire quindi la condanna da 15 a 14 anni), Marina Cugnaschi (da 13 anni a 12 anni e tre mesi), Vincenzo Vecchi (da 14 anni a 13 anni e tre mesi) e Luca Finotti (che, come scritto precedentemente, doveva comunque essere nuovamente giudicato dalla corte d’appello). Dei 5 condannati in via definitiva entrano subito in carcere Marina Cugnaschi e Alberto Funaro, che uscirà in affidamento nel febbraio 2015. Marina Cugnaschi è tutt’oggi sottoposta a misura di sicurezza dopo aver scontato interamente la pena. Ines Morasca, inizierà a scontare la pena in affidamento in prova, mentre Francesco Puglisi e Vincenzo Vecchi erano al momento irreperibili.
Il giudizio di rinvio alla Corte di Appello di Genova ha visto l’applicazione con sentenza del 13 novembre 2013 dell’attenuante a tutti i manifestanti con l’esclusione di Carlo Cuccomarino, considerato all’epoca dei fatti “troppo anziano” per aver subito la suggestione della folla. Nei confronti di Carlo Arculeo e Antonino Valguarnera la pena viene ridotta da 8 anni a 6, per Dario Ursino da 7 a 6, per Luca Finotti da 10 anni a 8. Successivamente, dopo un nuovo ricorso per Cassazione e un nuovo rinvio in appello, anche a Carlo Cuccomarino viene riconosciuta l’attenuante e ridotta la pena.

Sembra finita, ma non lo è. Lo Stato italiano impegna uomini e risorse per inseguire e braccare i pericolosissimi devastatori di Genova. Così nel 2013 è Francesco Puglisi a essere arrestato in Spagna ed estradato in Italia, nel 2017 tocca a Luca Finotti, identificato e arrestato in Svizzera. Entrambi sono ancora sottoposti a misure restrittive dopo un lungo periodo di detenzione in carcere.

L’8 agosto 2019 anche l’ultimo dei manifestanti condannati, Vincenzo Vecchi, viene arrestato in Francia, dove vive da anni, inserito e rispettato nella comunità locale. Tuttavia, la Francia non è avvezza a consegnare i detenuti politici senza prima verificare i presupposti delle richieste di estradizione e il giudizio. La verifica arriva il 4 novembre 2020, è uno schiaffo alle pronunce italiane: non viene riconosciuto il reato di devastazione e saccheggio perché non esistente in Francia (e in realtà, sottolinea la Corte di Angers, esistente solo in altri due Paesi europei oltre all’Italia), ma soprattutto viene considerata inaccettabile l’estensione abnorme del concorso di persone nel reato che ha condotto alla condanna di Vincenzo Vecchi (e della maggior parte dei suoi coimputati) sulla base della mera presenza sul luogo dei fatti, senza che allo stesso potesse essere attribuita alcuna condotta materiale specifica. La procura francese porta il caso davanti alla Corte di Cassazione che a sua volta chiede l’intervento della Corte di Giustizia Europea che sta esaminando il caso.

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[ultimo aggiornamento luglio 2021]